blog americalatina

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"Hay muchas maneras de contar esta historia, como muchas son las que existen para relatar el más intrascendente episodio de la vida de cualquiera de nosotros".

Monday, January 29, 2007

Managua

Cari amici e lettori, per un po' di giorni rallenterò la frequenza dei post, già che mi trovo in viaggio per il Nicaragua. Intanto sono a Managua, c'è un caldo soffocante e sto cercando di capire che aria tira, a parte l'afa. Il postliberalismo è in pieno progresso, anche se la città sembra quella di sempre. Questo sì: Managua, la città giardino, è però un poco meno verde e più cementificata dalle ultime volte. Il tassista che mi ha portato all'albergo -vox populi- è stato prammatico. Sandinista da una vita, rimane in attesa: in attesa che Ortega mantenga le promesse, che Chávez mandi la benzina e costruisca la raffineria, che i parenti possano tornare dall'estero, che finisca la corruzione. Insomma, l'attesa eterna dei nicaraguensi. Attorno, nella "city" con la "cattedrale" economica dei Pellas a fare da stridente sfondo, il triste panorama di tutte le città latinoamericane conquistate dalle multinazionali: McDonald, Burger King, Credomatic, Sony, e via così.
A risentirci appena possibile.

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Saturday, January 27, 2007

Gli indesiderati

Una delle notizie taciute di questi giorni è l’espulsione in massa dei salvadoregni dagli Usa. A partire da lunedì è giunto un volo quotidiano di rimpatriati, cacciati dagli Stati Uniti per la mancanza di legali documenti di residenza. La quota ha già superato solo in gennaio di gran lunga il dato di tutto il 2006: 1300 fogli di via contro 757.
Il frustrato sogno americano significa un forte colpo per l’economia salvadoregna. Sono infatti due milioni e mezzo gli emigrati –leciti e non- che vivono negli Stati Uniti, le cui rimesse nel 2006 hanno toccato i 3315 milioni di dollari, pari al 16% del prodotto interno lordo del Salvador.
Esiste un piano da parte delle autorità statunitensi di ridurre la presenza di emigrati anche in questa maniera. Non solo costruendo muri, quindi, ma anche setacciando l’interno del Paese alla ricerca di emigrati privi di permesso. Il servizio di migrazione espellerà una media di 600 salvadoregni per settimana durante tutto il 2007, senza importare i legami famigliari. Questo significa che se una madre ha fatto entrare un figlio in maniera illegale, i due dovranno separarsi. La legge, infatti, non guarda in faccia nessuno e l’unica cosa che importa è quella di sfoltire il numero di presenze degli ispani emigrati.
Per le autorità statunitensi è anche un modo per liberarsi di molti indesiderabili. Tra i rimpatriati, infatti, ci sono anche centinaia di pandilleros. Per un paese come il Salvador, che soccombe sotto i colpi della violenza quotidiana, non è certo una bella notizia.
Stessa storia per i guatemaltechi, come riporta la Bbc:
http://news.bbc.co.uk/hi/spanish/latin_america/newsid_6301000/6301193.stm
con una domanda formulata da Byron Vásquez a cui ci piacerebbe dare una risposta: “Perchè un cubano che arriva negli Usa appena posa piede è considerato un rifugiato, mentre un guatemalteco che vive da 20 anni negli Usa scappando da una guerra che gli Stati Uniti provocarono, finanziarono e mantennero non lo è?”.
La pittura nella foto è “Los deportados”, di José Lozano:
http://www.lisacoscinogallery.com/lozano/lozano.htm

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Friday, January 26, 2007

Il pianeta dimenticato

Vi segnalo oggi la mia partecipazione al programma radio di Rai Uno “Pianeta dimenticato”, in onda alle 8.40 di mattina. Si parlerà di Costa Rica, Nicaragua e di America Centrale in generale. Ospite anche Rodrigo Alberto Carazo, ex deputato qui in Costa Rica e avvocato che lavora per il rispetto dei diritti umani.
A mediare, c’è Cecilia Rinaldini, come sempre brava e precisa.
La trasmissione ha una sua pagina:
www.pianetadimenticato.rai.it dove potete ascoltare i programmi precedenti. Naturalmente, c’è molta America Latina.

Thursday, January 25, 2007

Humberto 5 anni

Ho un debito con Humberto, il mio primogenito. Infatti la sorellina Chiara è già finita due volte su queste pagine, mentre lui ancora niente. Bene, oggi compie cinque anni e ve lo posto. Una bella faccina dopo tanti brutti ceffi.

A volte ritornano: Noriega

Pochi se lo ricordano, convinti ormai che le porte delle prigioni Usa si fossero definitivamente chiuse dietro di lui, eppure i termini della prigionia di Manuel Noriega scadranno il prossimo settembre.
Faccia d’ananas (Cara de piña, come lo chiamavano a Panama) venne deposto nel dicembre 1989 dagli stessi amici che ne avevano determinato l’ascesa, quelli del Dipartimento di Stato Usa, preoccupati per la piega che stavano prendendo gli avvenimenti nello Stato del Canale.
Portato a Miami e processato, per Noriega scattò la condanna per narcotraffico e riciclaggio di denaro sporco. Oggi, l’ex uomo forte di Panama ha 69 anni e ha passato gli ultimi diciassette nel centro di detenzione di Miami Dale. La buona condotta e una revisione del processo gli hanno fruttato un forte sconto sulla pena, già che in origine avrebbe dovuto passare 40 anni dietro le sbarre.
Se Noriega, una volta riottenuta la libertà (sarà il 9 settembre 2007), decidesse di tornare a casa, lo aspettano altri 64 anni di prigione, oltre che due processi non ancora giunti a conclusione. Il 62% dei panamensi, secondo un sondaggio del quotidiano “La Prensa”, lo rivuole indietro proprio perchè compia le condanne che lo aspettano. Noriega, però, non è rimasto senza amici ed anzi può contare con un discreto sostegno nell’attuale governo. Non ci sarebbe da gridare allo scandalo, quindi, se una sua decisione di tornare coincidesse con una repentina amnistia.

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Wednesday, January 24, 2007

Un Politico per la Casa Bianca

In questo blog abbiamo parlato quasi sempre di America Latina e, naturalmente, per le relazioni intrattenute sono entrati di forza spesso gli Stati Uniti.
Negli Usa si è entrati in questi giorni in clima elettorale, e noi cercheremo di stare attenti sui pre-candidati e su quale rapporto cercheranno di instaurare con il sud del continente. L’era Bush è stata quanto di peggio ci si poteva immaginare. C’è da credere che anche un mediocre presidente, nei prossimi anni, possa fare meglio in quanto a relazioni con l’America Latina. Non bisogna però credere che un’amministrazione democratica aprirà completamente le menti e le frontiere: Hillary Clinton (ma perchè continua ad usare il cognome del marito?) ha votato a favore per il muro con il Messico. Insomma, non fidiamoci di quella donna e del suo dolce accento del sud.
A Washington, intanto, i più conosciuti e rinomati analisti politici hanno inaugurato un sito che seguirà tutte le indiscrezioni delle elezioni 2008. Vengono soprattutto dal Time e dal Washington Post, ma il sito –che si chiama Politico- può essere comunque preso come referenza:
http://capitolleader.com/
La pagina è stata presentata ieri sera, in occasione del discorso di Bush sullo stato della nazione. Chissà che Politico prenda in considerazione, per iniziare a lavorare con serietà, i dati sulla gestione Bush. Gli ultimi sondaggi sono da serie B: secondo la CNN il 63% degli statunitensi disapprova le scelte del presidente; più tosti quelli del Washington Post, che lo bocciano al 71%.
Una rassegna sulle goffaggini (e stupidaggini) di Bush:
http://www.bushspeaks.com/

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Tuesday, January 23, 2007

Quel tormentone del Cafta

Il Cafta –il Trattato di libero commercio con gli Usa- è ormai diventato, qui in Costa Rica, un tormentone. Il Congresso, dopo averlo ratificato almeno tre anni fa, non l’ha ancora approvato. Giunto alla discussione a dicembre, è stato ancora una volta rinviato per le vacanze natalizie –simili, per la durata, a quelle estive europee-.
(
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idart=6948)
Árias ne aveva fatto un cavallo di battaglia durante le elezioni dell’anno passato ed ancora ora insiste che il Cafta bisogna firmarlo, altrimenti la Costa Rica rimarrebbe indietro. Indietro da cosa? Dagli altri paesi centroamericani, che il trattato l’hanno ratificato subito. Grandi differenze di bilancia commerciale in questo periodo tra i vari paesi non se ne sono viste. La Costa Rica non è rimasta indietro, ciò nonostante la pressione sui cittadini è continua e costante.
Le radio e le televisioni da mesi bombardano la gente con spot a favore del trattato, con il compito di convincere anche gli ultimi indecisi. Ma perchè spendere tanti soldi, quando il Congresso potrebbe semplicemente ratificare il Cafta? Prova di democrazia? Macchè. La paura è quella che mezza Costa Rica scenda in piazza a protestare contro un trattato negoziato a favore solo di pochi interessati.
Quindi ecco che tutti i giorni ascoltiamo il solito ritornello: “El Tlc es bueno” e “Adelante Costa Rica!”. Devo dirvi che ne ho le scatole piene
Mi chiedo cosa si sarebbe potuto fare con tutti i soldi spesi per lavare il cervello alla gente. Strade? (che sono piene di buchi). Comprare banchi alle scuole? (che ne sono sprovviste). Medicine per gli ospedali pubblici?
La pressione è tale che oggi Undeca, il sindacato che riunisce i lavoratori degli ospedali, ha denunciato il governo all’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) perchè impedisce che si faccia propaganda anche contro il trattato. Undeca, infatti, di cose ne avrebbe da dire, già che la privatizzazione del settore e la legge sulla proprietà intellettuale metterebbe la salute pubblica nelle mani di poche aziende (quelle farmaceutiche, per esempio) e aumenterebbe a dismisura il prezzo delle medicine. Queste cose, però, non si possono dire: il governo spende soldi per pubblicizzare il Tlc e non permette ai propri impiegati di protestare contro.
Sulla situazione del Cafta vi rimando alla pagina di Informa-tico:
http://www.informa-tico.com/php/informa-tico.php

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Monday, January 22, 2007

Lugo, la Chiesa e la politica

Torniamo sul caso del vescovo paraguayano Fernando Lugo. Venerdì su Diario (www.diario.it) è uscito un mio pezzo sull’argomento, che dà riferimento alla notizia. La nuda nota di cronaca parla di un prelato che decide di lasciare il seno della Chiesa, quella cattolica ufficiale, per coinvolgersi politicamente e tentare la scalata alla presidenza della Repubblica del suo paese, il Paraguay.
La notizia merita alcune considerazioni, oltre a quelle già espresse da alcuni lettori e che si possono apprezzare nell’archivio di dicembre 2006.
La prima è quella che, con il suo gesto Lugo mantiene, almeno ufficialmente, le debite distanze tra il potere civile e quello religioso. Lugo prende atto di quello che gli comunica Roma e lascia non solo il suo posto di vescovo, ma anche il sacerdozio.

L’altra considerazione è che in quasi tutta l’America Latina non c’è vescovo che non interviene nella vita politica del proprio paese d’appartenenza. Cattolici e cristiani in generale –le etichette evangeliche si sprecano- arringano, fanno proselitismo, si schierano con l’uno o l’altro bando politico.
Lugo ha dato un esempio in un continente dove non esiste e non è mai esistita morale e rispetto delle chiese cristiane per l’ambito politico. Solo negli ultimi trenta anni abbiamo assistito al sorgere della Teologia della Liberazione e al suo inesorabile declino. Gli oceanici raduni di papa Woytila negli anni Ottanta erano dei veri e propri meeting politici, dove si decidevano le politiche a seguire secondo le indicazioni del papa: qui i buoni, là i cattivi (un esempio: Daniel Ortega –oggi cattolicissimo- fu marcato come cattivo e il genocida Ríos Montt, evangelico e insofferente con la Chiesa cattolica, nonostante un fratello vescovo, venne inserito tra i buoni).
Il cardinale Obando y Bravo ha sempre detto per chi votare in Nicaragua (per Arnoldo Alemán, ladro e corrotto); il cardinale Bergoglio aiutò la dittatura argentina; i Legionari di Cristo sono stati il Grande fratello della presidenza Fox in Messico e si potrebbe andare avanti per ore. Lo stesso vale per le chiese evangeliche, a cui il Perù deve il decennio fujimorista o dell’importanza che hanno avuto per la rielezione di Lula da Silva in Brasile.
Quando la Chiesa cattolica (e tutte le altre chiese) si atterrà esclusivamente al suo ruolo pastorale? Mai. D’altronde, la Chiesa cattolica non impone ai suoi prelati l’astensione dalla vita politica. Il codice canonico vieta ai religiosi l’appartenenza ad un partito politico o a un sindacato e di ricoprire cariche pubbliche: niente di più. I commenti, pesanti come macigni sulle decisioni del cristianissimo popolo latinoamericano, sono apprezzati e meglio ancora se appoggiano lo status quo.
Insomma, fa bene Lugo a mettere da parte l’abito, ma allo stesso tempo a dichiarare di non avere intenzione di lasciare la Chiesa, nella quale continua a credere. È un messaggio di speranza di una persona che vuole dare fiducia: ai paraguayani e a quanti credono ancora nel messaggio solidale della Chiesa.
Una nuova intervista a Lugo, rilasciata ad Abc di Asunción:
http://www.paginadigital.com.ar/articulos/2006/2006seg/cartas5/paraguay-080107.asp

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Saturday, January 20, 2007

L'Honduras punta i piedi

L’Honduras ha deciso infine di intervenire il mercato del petrolio e dei suoi derivati. Troppo cari i prezzi che imponevano le tre compagnie presenti nel Paese: Shell, Texaco ed Esso. Zelaya, presidente liberale e conservatore, niente a che vedere con un Chávez o un Morales, aveva avvertito i dirigenti delle società petrolifere di trovare un accordo per ridurli. La risposta delle tre compagnie è stata univoca: se ci fate abbassare i prezzi, sospenderemo l’invio di petrolio al Paese. Insomma, una bella lezione sullo spirito che anima le potenti multinazionali.
Zelaya ha così indetto una licitazione per consegnare ad un sola compagnia la totale distribuzione degli idrocarburi. A vincerla è stata la Conoco Phillip che ora, per decreto governativo, si vedrà consegnare le installazioni di Shell, Texaco ed Esso. Il presidente, però, non è Chávez (che proprio oggi ha fatto votare al Congresso la legge che gli permetterà di governare per decreto per i prossimi 18 mesi) e farà pagare alla Conoco l’affitto alle rispettive compagnie.
Gli Usa, naturalmente, stanno protestando. Probabilmente non riescono ancora a capire come anche alleati fedeli come l’Honduras, con governi di destra, gli si rivoltino contro. Insomma, non si rendono conto che la pacchia è finita. Rispettare le leggi degli altri paesi è sempre stato duro per i gringos, abituati a fare quello che volevano in tutta l’America Latina. Il risveglio dal bel sogno, naturalmente, è duro.
Gli honduregni, però, festeggiano. Come prima misura, il governo ha abbassato già da sabato scorso il prezzo della benzina.

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Thursday, January 18, 2007

Benvenuti a Foxilandia

Cosa farà Vicente Fox ora che non è più presidente del Messico? A cosa si dedicherà l’ex uomo della Coca Cola assurto al grande scenario della politica internazionale?
San Cristóbal è un piccolo paesino di poco più di duemila anime della provincia di Guanajuato. Fox e consorte – la potente Marta Sahagún- possiedono qui il loro ranch e fin qui tutto normale se i due non si fossero messi in testa di trasformare l’ameno villaggio in un’attrazione per turisti.
Fox è infatti deciso a dare sfogo al suo culto per la personalità costruendo Foxilandia, un complesso con tanto di hotel, mall, impianti sportivi, biblioteca, centro di studi ed anche un museo. Tema del museo? I presidenti del Messico, ovviamente, tra i quali Fox ha brillato per mediocrità e fiacchezza.
Rebelión ha già battezzato la nuova iniziativa come “Museo degli orrori” (qui l’articolo:
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=44892)
Se volete seguire il procedere della vicenda, Fox stesso vi manterrà informati attraverso la sua pagina web:
http://www.vicentefox.org.mx/

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Wednesday, January 17, 2007

Fidel seppellito prima del tempo

La notizia riportata da "El País" sulle condizioni critiche di Fidel Castro ha portato con sè una lunga serie di reazioni in America Latina. Sono pochi quelli, infatti, che credono nel recupero del comandante cubano e si è più propensi a darlo per spacciato. Perfino Hugo Chávez, irriducibile fedelissimo, si lascia andare ad uno sconsolato “non è che poi stia così male”.
Sono tanti quelli che hanno già seppellito Fidel e che osservano verso il futuro, chiedendosi che fare e cosa farà Cuba. Sui giornali di oggi le dichiarazioni sull’argomento si sprecano. C’è chi si compiace (Washington); chi non dice nulla (le autorità cubane); chi temporeggia (Chávez); chi invita alla calma per permettere la transizione (il segretario dell’Osa, Insulza).
Esiste o no, però, questa transizione? Gli esperti dicono che è iniziata da quando Castro si è ritirato in ospedale lasciando il potere a suo fratello Raúl. Per questo si spiegano anche le recenti visite dei congressisti Usa, per sondare quale sia lo stato di Cuba nell’imminenza di perdere Fidel. Ciò nonostante, cambiamenti sostanziali non se ne sono visti: i congressisti se ne sono tornati con le pive nel sacco.
Bisognerebbe invece osservare con attenzione quello che sta succedendo nel resto del continente. Nel caso Fidel fosse morto qualche anno fa le pressioni degli Usa avrebbero imposto a Cuba un governo filoamericano. Ne possiamo stare sicuri. Ma oggi le relazioni tra nord e sud del continente sono fondamentalmente cambiate. La presenza di Chávez e dei suoi alleati ha fatto sì che Cuba già non sia più isolata, ma parte di un gruppo di nazioni capaci di contrastare qualsiasi piano gli Usa abbiano sull’isola caraibica. Transizione, quindi? Come stanno le cose, è più probabile che prima attraverso Raúl e poi per mezzo di qualche altro dirigente, Cuba continui per la sua strada che non è quella di apertura alle lusinghe di Washington. C’è da scommettere che Cuba rimarrà una spina nel fianco dell’impero per molto tempo ancora.

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Tuesday, January 16, 2007

Correa in Ecuador e l'asse Chávez è completo

Rafael Correa ha giurato come nuovo presidente dell’Ecuador. Oriundo di Guayaquil, laureato in economia in Belgio, un master negli Usa, 43 anni, sposato con una cittadina belga (come l’ex presidente peruviano Toledo), Correa ha scosso l’elettorato del suo Paese per un’ampia critica alle istituzioni politiche. Da qui la fiducia datagli dalla maggioranza degli ecuadoriani, per un governo che ora si allinea con Venezuela, Bolivia, Nicaragua e Cuba. L’Ecuador, che ha battuto il record di presidenze (otto o nove negli ultimi dieci anni, ho perso il conto anch’io) tenta ora una nuova via con questa prova a sinistra. Correa dice di avere le idee ben chiare e all’inviato del francese Le Monde ha ripetuto quelle che sono le sue convinzioni: “Non sono contro i partiti politici, ma mi chiedo se sono veramente essenziali per le democrazie del XXI secolo”.
L’economista, che però dovrà fare i conti con una maggioranza risicata nel Congresso –decisivo il voltafaccia del solito Lucio Gutiérrez, risorto politicamente dopo l’esilio e la prigione- ha annunciato che comincerà la sua presidenza radunando un’assemblea costituente per rinnovare la Costituzione. Duro, invece, sul debito estero –“pagheremo solo quello che potremo, dopo aver investito nel sociale”- Correa è, naturalmente, un antigringo.
Con Correa, l’asse auspicato da Chávez è infine pronto. Da Caracas a La Habana, passando per Managua, Quito e La Paz, la sinistra ha ora, oltre ad una identità ormai definita, anche numeri e politiche per farsi sentire.

Per chi vuole conoscere meglio Correa, Wikipedia in spagnolo ha aggiornato la sua pagina ieri (http://es.wikipedia.org/wiki/Rafael_Correa). Inoltre, rimandiamo anche alla sua pagina web: http://www.rafaelcorrea.com/, con il discorso di insediamento.

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Monday, January 15, 2007

L'Iran in America Latina

Ahmadinejad è tornato a Caracas e per lui ci sono stati gli attesi abbracci e gli attesi discorsi di benvenuto. Attesi perchè somigliano tanto alle moine di regime che ci hanno abituato nel passato tanti governi che hanno disatteso le richieste e le necessità dei loro cittadini.
Chávez è, come al solito, euforico e trionfalista e parla dell’alleanza con l’Iran come “la vittoria delle personalità liberi ed indipendenti”. Non credo che le personalità liberi ed indipendenti si riconoscano nel presidente dell’Iran e quando fa così Chávez si comporta proprio come quei disgraziati dittatori destroidi del passato che pensavano che i loro popoli fossero una massa di ignoranti ed imbelli zotici.
L’Iran è già in Venezuela, dove a novembre è iniziata la costruzione della Venirán, un’automobile super economica e presto inizieranno anche gli altri progetti.
Ahmadinejad ringrazia perchè non avrebbe mai pensato che posizionarsi in America Latina sarebbe stato tanto semplice ed indolore. Chávez, infatti, attraverso l’Alba ha invitato (o imposto) agli altri paesi firmatari del trattato di ricevere l’iraniano, che ieri era a Managua e quindi oggi sarà a Quito, per incontrarsi con Rafael Correa. Le promesse sono le solite: fiumi di dollari –petrodollari- per le economie disastrate come quella nicaraguense ed ecuadoriana in cambio di prestigio ed appoggio internazionale.
Cosa dobbiamo aspettarci con l’Iran –questo Iran- in America Latina?. È troppo azzardare che il finanziamento terrorista correrà ora anche su obiettivi latinoamericani?
È possibile che l’antimperialismo necessiti di alleanze tanto funeste?
Intanto i due (Chávez e Ahmadinejad), dato che il prezzo del petrolio è in ribasso (otto dollari in meno per barile in due settimane), hanno deciso di fare fronte comune e di ritirare parte della produzione per fermare la discesa. Ossia, se continuerete a pagare cara la benzina in Europa, un pensierino –oltre alle sette o quante sono ora le sorelle- fatelo anche al colonnello dal basco rosso.

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Saturday, January 13, 2007

Il fuoco di Cochabamba

Tornato da Managua, Evo Morales ha dovuto subito rivolgere la sua attenzione a Cochabamba. La città, che fa un milione e mezzo di abitanti e che è la terza per importanza della Bolivia, è da giorni teatro di scontri che hanno lasciato il saldo di due morti e centinaia di feriti. (Nella foto qui sopra, il ragazzo che lancia una pietra con la sua fionda sarà ucciso poco dopo).
Alla radice della protesta, la richiesta avanzata dai simpatizzanti di Morales delle dimissioni per il governatore della regione, Manfred Reyes Villa, la cui intenzione è quella di indire un ennesimo referendum per l’autonomia, sull’esempio di quello già presentato a Santa Cruz. Ennesimo perchè Cochabamba ha già detto no, sette mesi fa all’autonomia.
La città di Cochabamba si è trasformata quindi in un campo di battaglia tra i partitari dei due bandi, dove Morales, per mantenere la legalità, si è visto costretto a ricorrere all’intervento della polizia e dell’esercito. Le pretese indipendentiste del governatore Reyes Villa sono palesi e vanno nella direzione di cercare un’intesa con Santa Cruz e le altre regioni (Tarija, Beni e Pando) che chiedono l’autonomia –preludio del separatismo-.
Dopo gli inviti di Morales alla calma, per trovare il dialogo tra le due parti è stato chiamato il cardinale Julio Terrazas. Anche il prelato parla di “una Bolivia per tutti”, intanto l’esercito presidia la città.
Visita virtuale di Cochabamba:
http://www.cbba.info/

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Friday, January 12, 2007

Nicaragua e Venezuela a braccetto

Nicaragua e Venezuela vanno subito a braccetto. Daniel Ortega ha firmato, come primo atto come presidente, l’adesione all’Alba (Alternativa Bolivariana de las Américas) che riunisce già Venezuela, Cuba e Bolivia. Una firma pesante, che porta Ortega subito verso le sponde che più predilige e che, intanto, gli permette di tirare il fiato sulla questione energetica. Chávez, infatti, gli manderà –a cambio dell’adesione- dieci milioni di barili di petrolio all’anno. Assieme al petrolio arriveranno anche un gasdotto ed una raffineria, capace questa di processare 150.000 barili al giorno. La raffineria, naturalmente, sarà gestita da una società mista proprietà dei due governi. Tutto secondo il più tradizionale statalismo.
Ortega, perlomeno, in un solo giorno ha già creato un ibrido. Il Nicaragua da un lato continuerà ad appartenere al Cafta con gli Usa –che gli ha permesso di aumentare le sue esportazioni- e dall’altro appoggerà le politiche economiche socialiste suggerite da Chávez ed i suoi soci all’interno dell’Alba. Un esperimento da seguire.
Durante il suo discorso di insediamento, Ortega ha criticato lungamente le politiche neoliberali: “In Nicaragua hanno creato una situazione di emergenza sociale, perchè hanno negato a milioni di cittadini l’accesso alla salute, all’educazione e ad un lavoro” ha detto. Andiamo nell’Alba, invece, perchè si basa nei principi di solidarietà, cooperazione ed aiuto reciproco.
Parole sacrosante, ma allora perchè si prende come alleato quell’Alemán sulla cui coscienza pesa la responsabilità di aver impoverito migliaia di nicaraguensi?
Tornando a Chávez, i protocolli di intesa prevedono anche la costruzione di 200.000 case per i poveri e il rilancio dell’agricoltura: farà Ortega infine quella riforma agraria che era fallita durante il decennio sandinista?
Il sito del Frente Sandinista:
http://www.fsln-nicaragua.com/

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Thursday, January 11, 2007

Ortega 17 anni dopo

Daniel Ortega ha ripreso ufficialmente il potere dopo diciassette anni di opposizione. La cerimonia si è svolta in forma abbastanza semplice, in una Managua blindata, dove quindicimila effettivi tra polizia ed esercito controllano le principali arterie ed edifici. Ortega ha ricevuto i vari capi di stato e di governi latinoamericani vestito casual, in camicia bianca, dando l’idea più di un cafetalero attempato che di un leader della rivoluzione.
Ora, la domanda che si fanno tutti è: quanto è cambiato Daniel?. Tutti vogliono sapere se il lupo si è mimetizzato da agnello per ottenere il suo scopo, quello di tornare alla presidenza del Nicaragua o se davvero si è ammansito con gli anni e l’esperienza.
Ortega ha ricevuto anche il messaggio di George Bush, che va in direzione diametralmente opposta da quelle che erano state le minacce pre-elettorali: tanti auguri per la presidenza e vogliamo collaborare con voi. La prudenza, di questi tempi, in America Latina non è mai troppa. Ortega ringrazia, naturalmente, ma intanto stringe la mano soprattutto a Hugo Chávez che, tanto per cominciare, ha promesso di risolvere i problemi di elettricità che attanagliano il Nicaragua. Tanto per cambiare martedì, con l’arrivo delle prime delegazioni, un lungo black out ha lasciato Managua senza luce per ore, eredità del neoliberalismo imperante durante lo scorso decennio.
Cosa si aspettano i nicaraguensi da Ortega? Innanzi tutto che rompa lo schema di clientelismo e corruzione che le anteriori presidenze liberali hanno instaurato come modello. E poi, che dia opportunità di lavoro, affinchè le diaspore di intere famiglie nicaraguensi terminino infine. Per entrambe le cose, c’è il beneficio del dubbio. Ortega è un caudillo e, pur di tornare al potere, ha fatto patti con il diavolo (e con l’acquasanta). Di tali amici (Alemán e Obando y Bravo) dovrà pur guardarsi, ma intanto da buon politico, ha diviso le poltrone che contano con gli amici del galeotto ex presidente e del cardinale. Non è certo questo che ci si aspetta: clericali e possidenti sono, in fondo, il Nicaragua di sempre. Le sfide di Ortega devono andare a parare altrove e non necessariamente volgersi completamente al Venezuela di Chávez. Il Nicaragua ha bisogno di una propria via che gli serva per provare che è finalmente maturo: Ortega gliela potrebbe dare e dimostrare che non solo il Paese, ma anche il sandinismo è cresciuto.

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Wednesday, January 10, 2007

Freddy Muñoz torna in libertà

La farsa dell’arresto del giornalista Freddy Muñoz sembra essere finita. Un giudice ha emesso infatti la sentenza di scarcerazione, e il corrispondente di Telesur (http://www.telesurtv.net/) è potuto ritornare in libertà.
La vicenda di Muñoz era sembrata subito una montatura, pianificata dalle autorità colombiane per screditare l’attività di un giornalista scomodo. Tirato in ballo da un gruppo di pentiti di dubbia reputazione, che lo vincolavano con la guerriglia colombiana, Muñoz ha dovuto farsi 52 giorni di carcere prima di essere riconosciuto estraneo ai fatti. Tanto tempo di prigionia indica non solo la lunghezza dei procedimenti processuali in Colombia, ma anche e piuttosto la volontà ostile da parte delle autorità, che hanno voluto fare passare tutta questa vicenda come un avvertimento per quanti si arrischiano a fare del giornalismo serio.
L’evolversi della vicenda ha infatti dimostrato la mala fede delle strutture poliziali e giudiziarie implicate a fabbricare le prove per montare un caso che attenta alla libertà di espressione. Dopo giorni di interrogatori, dovuti all’insistenza del gruppo di avvocati chiamato dalla dirigenza di Telesur, gli accusatori si sono ritrattati ed hanno ammesso di essere stati spinti dal Pubblico Ministero a dare una falsa testimonianza per incastrare Muñoz.
Nonostante tutto, il procedimento a carico del giornalista procede, per cui gli avvocati chiedono la massima attenzione ai mezzi di informazione per denunciare le prevaricazioni della polizia colombiana che potrebbe agire di nuovo per depistare le indagini. Secondo le testimonianze della redazione di Telesur a Bogotá, i giornalisti di questa emittente sono pedinati e ripresi da agenti del Das (
http://www.das.gov.co/), in quello che è ormai diventato un braccio di ferro tra il potere e la libertà di stampa.

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Tuesday, January 09, 2007

Chávez e l'anno delle nazionalizzazioni

Hugo Chávez va giù pesante con l’inizio di questo 2007. Dopo il semaforo rosso alzato contro Radio Caracas Televisión, a cui non sarà rinnovata la licenza, Chávez ha presentato il piano per il nuovo anno. E si tratta di un piano polemico, che verte sulla nazionalizzazione e che non lascia spazio a nessun tipo di negoziato.
Durante il giuramento dei nuovi ministri, il presidente venezuelano ha chiesto poteri speciali al Congresso per risolvere la nazionalizzazione di quelle aziende che operano soprattutto in settori ritenuti vitali per la sicurezza del Venezuela, come le telecomunicazioni e lo sfruttamento delle risorse naturali.
Tutto quello che è stato privatizzato, deve essere nazionalizzato” ha tuonato Chávez. Sotto la mira del presidente c’è in particolare la Cantv (compagnia telefonica), il Banco Central de Venezuela –attualmente un ente autonomo- e le raffinerie che operano nel bacino dell’Orinoco. Questa decisione trarrà con sè grandi conseguenze, già che la Cantv è proprietà al 28,5% della Verizon e gli impianti dell’Orinoco sono attualmente in mano di cinque potenze degli idrocarburi: la Exxon, la Chevron, la British Petroleum, la Total e la norvegese Statoil.
Insomma, quello che verrà sarà un vero e proprio terremoto. Luce e telefono passeranno a mano dello Stato, così come il petrolio dell’Orinoco, un bacino ricchissimo le cui risorse potranno assicurare al Venezuela un ruolo guida per i prossimi decenni. Le prove dure per il chavismo vengono proprio ora. Chávez lo sa benissimo e chiede poteri speciali, mentre si guarda attorno per capire chi starà con lui. Domani, intanto, arriverà a Managua, dove parteciperà alla cerimonia che vedrà Ortega assumere la presidenza del Nicaragua. Il 2007 dell’America Latina comincerà da lì.

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Monday, January 08, 2007

Pulizia sociale in Guatemala

Esistono i commandi della morte in Guatemala? La risposta è sì. Qualche giorno fa parlavamo dell’anniversario dei dieci anni dalla firma degli accordi di pace e di come questa pace sia fittizia, soprattutto se posta in relazione allo stato di degrado che dimostra la società guatemalteca.
Uno dei fenomeni mai repressi è quello dei commandi della morte, strumento di morte e repressione paramilitare delle forze di polizia e dell’esercito. Durante il conflitto, le vittime di questi gruppi erano gli oppositori al regime, intellettuali, sindacalisti, studenti. Ora, a cadere sotto i colpi dei paramilitari sono i pandilleros e i niños de la calle, i bambini della strada, eliminati freddamente durante i raid dei gipponi.
Ne parlo perchè le sere dei fine settimana si trasformano in Guatemala in un abituale tiro al bersaglio. Il primo saldo di inizio anno parla di sei morti, tutti giovani sotto i venti anni ritenuti, per i loro tatuaggi, pandilleros.
Le associazioni per i diritti umani parlano di un disegno eversivo di pulizia sociale, studiato a tavolino e messo in atto dalla parte più estremista della polizia e dell’esercito. Già che le leggi non sono abbastanza dure, secondo la logica di questa gente, ci pensiamo noi a pulire le strade da chi vende droga, esercita la prostituzione o chiede anche solo l’elemosina. La media di minori di diciotto anni uccisi nella capitale guatemalteca ha raggiunto l’incredibile cifra di 57 al mese nell’anno appena concluso.
In questo articolo La Prensa Libre intervista sul Guatemala Anders Kompass, commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani:
http://www.prensalibre.com/pl/2007/enero/02/159785.html
Il senso dell’articolo è abbastanza semplice: sì esiste la pulizia sociale, lo Stato è debole e non sa come rispondere, non esiste una politica di prevenzione.
Casa Alianza lavora per togliere i bambini dalle strade delle città centroamericane:
http://www.casa-alianza.org/es/news.php

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Sunday, January 07, 2007

La liberazione di Rázuri

La strage della Pandilla 18

La pandilla 18 è un nome che fa venire la pelle d’oca in tutta l’America Centrale. Specializzata nelle estorsioni, assieme alla Mara Salvatrucha è una delle due bande che mantengono il Salvador nella morsa del terrore quotidiano di sequestri, taglieggiamenti ed omicidi. La pandilla 18, in particolare, si è trasformata rapidamente in un’organizzazione di stile mafioso che riceve il pizzo da una quantità di negozi della capitale salvadoregna. Ogni giorno i commercianti (dai baristi ai tassisti, dai ristoranti ai supermercati) devono versare agli emissari della 18 un minimo di due dollari, in segno di vassallaggio e protezione.
Il paese è allo stremo: El Salvador è uno dei posti più pericolosi dell’America Latina e la politica del presidente Saca è quella della repressione ad ogni costo. Le carceri si sono riempite di pandilleros che continuano la loro attività all’interno dei centri penali, trasformati anche questi in luoghi di potere illegale. Le bande, infatti si disputano il controllo dei punti nevralgici delle prigioni, venendo spesso alle estreme conseguenze. Sinora le autorità erano riuscite ad evitare le rivolte che, come nel vicino Honduras, avevano procurato, almeno in due occasioni, centinaia di morti.
Venerdì, però, la situazione è precipitata e il sequestro di una guardia penitenziaria si è trasformato in un massacro. I dati ufficiali parlano di venti morti, tutti pandilleros della 18. Ora si aspettano le ritorsioni: la guerra è iniziata, insomma.
Un progetto di recupero dei pandilleros:
http://www.changemakers.net/journal/300506/displayethics.cfm?ID=17

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Friday, January 05, 2007

Le violenze (reali) di Guantánamo

Adesso sì, che lo dice l’Fbi, risulta che a Guantánamo le violenze sui detenuti siano reali e all’ordine del giorno. Qualche tempo fa un articolo pubblicato su questo blog e ripreso da Liberoblog aveva avuto una sequela di commenti e non tutti proprio positivi. Magari, ora che esiste una versione ufficiale sulle violenze, qualcuno di quei censori potrà cambiare parere.
Forse.
Di cosa parla il documento dell’Fbi? Nello specifico sono riportati ventisei casi che riguardano i duri metodi di interrogatorio, dove i prigionieri, oltre ad essere costretti a terra in posizione fetale, vengono lasciati anche 24 ore senza ricevere cibo o acqua, tra i propri escrementi. Tra gli abusi riportati, c’è quello di raffreddare la cella del prigioniero con un condizionatore d’aria, fino a raggiungere temperature rigide o di avvolgerne la testa con nastro adesivo.
Lo stesso documento afferma che, nonostante tutto, gli abusi riportati a Guantánamo non si avvicinano minimamente a quanto accaduto ad Abu Ghraib. Meno male...
Secondo l’Fbi tutti i maltrattamenti perpetrati avevano ricevuto l’autorizzazione da Donald Rumsfeld.
Anche a Tiempos del Mundo si sono aggiornati ed ora pubblicano un fotoreportage dell’Associated Press dove i prigionieri di Guantánamo, inesistenti nell’articolo anteriore, appaiono e dove il carcere risulta appunto per quello che è, una prigione nel mezzo del nulla con il sole a picco dodici ore al giorno ed un regime duro:

http://www.tiemposdelmundo.com/galerias/Guantanamo_una_prision_sin_rostro.html

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Thursday, January 04, 2007

Manifestazione per la libertà di Rázuri

Si è tenuta oggi a Gaza una manifestazione, organizzata dai giornalisti palestinesi, per chiedere la libertà di Jaime Rázuri. Finora, il suo rapimento non è stato rivendicato. Il fotoreporter peruviano si è distinto per essere sempre stato testimone del disagio. Il suo rapimento giova solo ai padroni della guerra.

Patti: politici si diventa, carnefici si rimane

A pochi giorni dalla fine della sua disavventura, Luis Gerez parla e non ha nessun dubbio nel segnalare Luis Patti come mandante intellettuale del suo sequestro. La testimonianza sul passato di Patti, resa da Gerez, era stata chiave per impedire che l’ex commissario di polizia venisse accolto nella Camera dei Deputati argentina. Nelle dichiarazioni di Gerez risultava come Patti avesse praticato la tortura per ottenere le deposizioni dei prigionieri politici durante la dittatura.
Gerez era sparito la notte di mercoledì ed è riapparso venerdì alla periferia di Buenos Aires, con addosso i segni di un duro maltrattamento fisico. Legato ad una barra di ferro, ha dovuto subire la farsa di una falsa fucilazione e altri tipi di tortura, come la bruciatura di sigarette sul torace.
La sua liberazione è avvenuta poche ore dopo un discorso alla nazione del presidente Kirchner, che segnalava i settori paramilitari della polizia come responsabili del sequestro. Patti non ci sta, naturalmente e dice che si tratta di una farsa per screditarlo. I metodi usati, però, sono quelli tipici usati dagli sgherri della dittatura ed il sequestro ha tutta l’aria di una vendetta. Intanto, mentre Gerez è stato liberato, non si sa ancora nulla di Jorge Julio López, testimone chiave nel processo Etchegaray sparito ormai da settembre: i due fatti confermerebbero l’esistenza di un apparato extra legale.
Patti, il cui motto è “Argentina segura” ha una sua pagina web:
http://www.luispatti.org.ar/
Appare anche in un’altra pagina, meno propagandista e più consona alla realtà dei fatti:
http://www.desaparecidos.org/arg/tort/policia/patti/
Per qualsiasi considerazione potete paragonare le due biografie: in quella di Patti non appare nulla del suo operato tra il 1976 ed il 1983. In fondo, un passato da carnefice è duro da sostenere anche per chi si è proposto come politico di successo.

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Wednesday, January 03, 2007

Rázuri sequestrato a Gaza

Da due giorni il fotografo peruviano Jaime Rázuri è prigioniero nella striscia di Gaza. Rázuri, 50 anni, è un fotoreporter dalla lunga esperienza. Da tredici anni lavora per la France Press, ma prima aveva testimoniato con la sua macchina fotografica il disagio e la guerra interna di Sendero Luminoso nel suo Perù natale. I suoi fotoreportage sono stati pubblicati da La República e da Caretas e si caratterizzano per il forte contenuto sociale.
Rázuri è stato rapito da cinque uomini incappucciati a Gaza, ma sinora nessuna delle organizzazioni filopalestinesi si è addossata la responsabilità del gesto.
La sua foto, qui sopra, è un’immagine della campagna “Vaso de Leche” di Project Perù, ad Ayacucho.
Qui due retrospettive dei suoi lavori su Lima ed il Perù:
http://www.openphotoperu.com/portafolios/jrazuri/jaimerazuri.htm
http://www.etiquetanegra.com.pe/revista/2006/38/portafolio/portafolio7.htm

Tuesday, January 02, 2007

Bolivia e Usa: le relazioni imperfette

Non c’è stata vacanza per Evo Morales che ha inaugurato a fine anno i lavori della costruzione della prima fabbrica di trasformazione della foglia di coca, situata nella regione di Cochabamba. L’investimento previsto è di 250.000 dollari e lo stabilimento, chiavi in mano, sarà pronto in tre mesi. La fabbrica, una volta in funzione, produrrà un mate che mischia la foglia di coca all’anice e alla camomilla. Più avanti, è prevista la produzione di differenti tipi di tè a base di foglia di coca e di frutti tropicali.
La costruzione della pianta ha richiamato le solite critiche da parte degli Stati Uniti, che insistono invece sull’applicazione del piano originale sulla coltivazione della coca –controllo e distruzione-, osteggiato da sempre dall’amministrazione Morales.
Il Consiglio di ministri, che si è riunito il primo gennaio, ha fatto anche un ulteriore passo nello stabilire ulteriori distanze con gli Usa, firmando una legge che obbliga i cittadini statunitensi che si recano in Bolivia a richiedere il visto di soggiorno. Il governo boliviano si è appellato al diritto di reciprocità (già messo in atto tra gli altri da Cile e Brasile) per il fatto che gli Stati Uniti obbligano i cittadini dei paesi latinoamericani a richiedere il visto per entrare nel loro paese.
“Per quanti piccoli e sottosviluppati” ha detto Morales “abbiamo la stessa dignità di altri Paesi più grandi”. Il presidente boliviano ha poi ricordato l’attentato del marzo scorso a La Paz, perpetrato da un cittadino statunitense e che lasciò un saldo di due morti. Insomma, la relazione Usa-Bolivia comincia nel 2007 con il più classico dei proverbi: occhio per occhio, dente per dente. Come prepararsi un tè di foglie di coca:

http://es.wikipedia.org/wiki/Mate_de_coca

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