Il commercio, padrone del mondo
Álvaro Uribe è raggiante: la Colombia ha chiuso le negoziazioni con gli Usa per il Trattato di libero commercio. Si farà quindi e si farà presto. Buon per lui. E per chi altri? Ho avuto modo di seguire negli ultimi due anni le negoziazioni del Trattato di libero commercio tra Stati Uniti e i paesi centroamericani. Così come per la Colombia, l’agenda ha seguito uno stesso copione: in prima fila, i grandi luminari di Washington hanno messo le norme per la proprietà intellettuale, i diritti delle grandi case farmaceutiche, l’abolizione dei monopoli, la revisione delle sovvenzioni all’agricoltura e così via. Tematiche sociali: zero. Problematiche ambientali: meno zero. Sviluppo sostenibile: zero spaccato.
Insomma, i TLC sono una porcheria. Ridotti ai minimi termini, sono dei trattati pensati apposta per le industrie statunitensi (più qualche privilegiata azienda locale), le uniche che possono e per il loro capitale e per la loro organizzazione compiere con i requisiti.
Prendiamo il settore agricolo. Si chiede al contadino di rinnovarsi, di investire nella campagna per compiere con le nuove normative. Il contadino latinoamericano –se non è il classico proprietario di una hacienda- è in generale un poveraccio che non ha accesso al credito. Guadagna appena per mantenere la famiglia e cerca di vivacchiare sperando che non gli cadi dal cielo un Mitch o una siccità. Ugualmente, non otterrà aiuto dallo Stato che, pur firmando l’accordo, non ha conservato fondi da dirigere ai suoi settori più esposti. Risultato: il contadino non sa più dove piazzare i suoi prodotti. Se vuole sopravvivere, deve vendere la sua terra. A chi? Alla compagnia straniera, naturalmente, che ha come investire e che farà rendere –vendendoli più cari- quei prodotti che prima acquistavamo a buon prezzo. Dove finisce il contadino? A fare il disoccupato e così suo figlio, sua figlia e gli immancabili nipoti.
Tony Saca, il presidente del Salvador, è un altro di quelli che non stanno nella pelle. Mercoledì entrerà in vigore il Cafta (il Tlc) tra il suo Paese e gli Usa. Nel suo discorso ha ripetuto le stesse cose che abbiamo ascoltato dieci anni fa, quando ci parlavano delle bontà delle politiche neoliberali: più lavoro, più affari, maggiori redditi, meno povertà. Fatevi un giro nelle periferie di Bogotá, Lima, Città del Messico o anche solo, a dieci chilometri da qui, in quello che chiamano l’Infiernillo, il piccolo inferno, e poi spiegatemi cosa c’è di buono in queste politiche. E poi, soprattutto: cosa ci diranno tra altri dieci anni?
Insomma, i TLC sono una porcheria. Ridotti ai minimi termini, sono dei trattati pensati apposta per le industrie statunitensi (più qualche privilegiata azienda locale), le uniche che possono e per il loro capitale e per la loro organizzazione compiere con i requisiti.
Prendiamo il settore agricolo. Si chiede al contadino di rinnovarsi, di investire nella campagna per compiere con le nuove normative. Il contadino latinoamericano –se non è il classico proprietario di una hacienda- è in generale un poveraccio che non ha accesso al credito. Guadagna appena per mantenere la famiglia e cerca di vivacchiare sperando che non gli cadi dal cielo un Mitch o una siccità. Ugualmente, non otterrà aiuto dallo Stato che, pur firmando l’accordo, non ha conservato fondi da dirigere ai suoi settori più esposti. Risultato: il contadino non sa più dove piazzare i suoi prodotti. Se vuole sopravvivere, deve vendere la sua terra. A chi? Alla compagnia straniera, naturalmente, che ha come investire e che farà rendere –vendendoli più cari- quei prodotti che prima acquistavamo a buon prezzo. Dove finisce il contadino? A fare il disoccupato e così suo figlio, sua figlia e gli immancabili nipoti.
Tony Saca, il presidente del Salvador, è un altro di quelli che non stanno nella pelle. Mercoledì entrerà in vigore il Cafta (il Tlc) tra il suo Paese e gli Usa. Nel suo discorso ha ripetuto le stesse cose che abbiamo ascoltato dieci anni fa, quando ci parlavano delle bontà delle politiche neoliberali: più lavoro, più affari, maggiori redditi, meno povertà. Fatevi un giro nelle periferie di Bogotá, Lima, Città del Messico o anche solo, a dieci chilometri da qui, in quello che chiamano l’Infiernillo, il piccolo inferno, e poi spiegatemi cosa c’è di buono in queste politiche. E poi, soprattutto: cosa ci diranno tra altri dieci anni?
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