I minatori di San Juan de Sabinas
La cittadina di San Juan de Sabinas non la conosceva praticamente nessuno fino a pochi giorni fa. Il nome è salito alle cronache nella maniera meno sperata, perchè San Juan de Sabinas è paese di minatori, di gente povera, sconosciuta, che non ha altra maniera di guadagnarsi la vita che scendere nelle viscere della terra per salari da fame (120 dollari). È da qui che viene infatti la maggioranza dei minatori -65 in totale- rimasti intrappolati sottoterra da una frana, con remote speranze di recuperarli con vita. È passata infatti una settimana dall’esplosione e ancora oggi i gruppi di soccorso non sono riusciti a raggiungere il luogo del disastro.
San Juan de Sabinas sorge nella provincia messicana di Cohauila, da dove si estrae il 95% del carbone di questa nazione. I minatori qui sono abituati ad una vita di stenti, e per i giovani non esiste nessuna opportunità di lavoro che non sia quella di emigrare o piegarsi alla vita in miniera.
La tragedia di domenica scorsa era praticamente annunciata. Le condizioni di lavoro sono pessime, e solo il 7 febbraio una commissione che aveva visitato le installazioni aveva rivelato serie irregolarità. Non abbastanza serie, però, da pregiudicare la chiusura della miniera. In un paese dove gli affari si arrangiano con favori e mazzette quella decisione non aveva scandalizzato nessuno. È come il cane che si morde la coda: gli operai chiedono migliori condizioni di lavoro, però allo stesso tempo si rifiutano di cedere ad una chiusura, anche solo temporale. Nella logica dell’azienda, invece, bisogna sempre andare avanti, non importano i rischi, non importa la vita delle persone. Il risultato è stata l’esplosione di grisù e, con le morti ormai certe dei minatori, miseria che si aggiunge ad altra miseria.
San Juan de Sabinas sorge nella provincia messicana di Cohauila, da dove si estrae il 95% del carbone di questa nazione. I minatori qui sono abituati ad una vita di stenti, e per i giovani non esiste nessuna opportunità di lavoro che non sia quella di emigrare o piegarsi alla vita in miniera.
La tragedia di domenica scorsa era praticamente annunciata. Le condizioni di lavoro sono pessime, e solo il 7 febbraio una commissione che aveva visitato le installazioni aveva rivelato serie irregolarità. Non abbastanza serie, però, da pregiudicare la chiusura della miniera. In un paese dove gli affari si arrangiano con favori e mazzette quella decisione non aveva scandalizzato nessuno. È come il cane che si morde la coda: gli operai chiedono migliori condizioni di lavoro, però allo stesso tempo si rifiutano di cedere ad una chiusura, anche solo temporale. Nella logica dell’azienda, invece, bisogna sempre andare avanti, non importano i rischi, non importa la vita delle persone. Il risultato è stata l’esplosione di grisù e, con le morti ormai certe dei minatori, miseria che si aggiunge ad altra miseria.
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